Circolo Partito Democratico - Capistrello (Aq)

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giovedì 25 dicembre 2008

QUESTIONS QUESTIONS


Cos'è la cultura?

Cultura dove sei?
La cultura è critica sociale?
La cultura è necessaria?
La cultura è politica?
La religione è cultura?
La cultura dell'emergenza...
Abbiamo dimenticato la cultura?
Alla ricerca della cultura a Milano...
Alla ricerca di Gramsci a Milano...
Alla ricerca di Pasolini a Milano...
Quali sono le responsabilità della cultura?
L'intellettuale è inutile?
La politica ha bisogno della cultura?
La cultura fa volare l'Italia?

Milano - quindici interrogativi sulla cultura. Sfondo nero pece - scritta bianco latte e un grosso punto interrogativo rosso come il sangue- Così l'artista cileno Alfredo Jaar prova a stuzzicare la riflessione intorno a domande che solo apparentemente potrebbero sembrare poco invasive. I pannelli il cui richiamo stilistico ai billboard di Patrick Mimran è fin troppo evidente cercano attraverso poche parole di innescare una riflessione sul possibile ruolo della cultura: espressione del tempo in cui viviamo e ambito di elaborazione di risposte ad urgenze e diversità del presente.
Questions Questions
questo il titolo del progetto ideato da Alfredo Jaar , è una delle risposte della Cultura al tempo che viviamo nella speranza di "alzare" o meglio "ri-alzare" anche il bibattito politico e pubblico, perchè anche la politica è cultura.







mercoledì 24 dicembre 2008

Buon Natale...


In questi tempi come non disturbare Tutti Voi con gli auguri di don Tonino Bello
.....Buon Natale

AUGURI SCOMODI

Carissimi, non obbedirei al mio dovere di vescovo se vi dicessi “Buon Natale” senza darvi disturbo. Io, invece, vi voglio infastidire. Non sopporto infatti l’idea di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla routine di calendario.
Mi lusinga addirittura l’ipotesi che qualcuno li respinga al mittente come indesiderati. Tanti auguri scomodi, allora, miei cari fratelli! Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali e vi conceda di inventarvi una vita carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio. Il Bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finché non avrete dato ospitalità a uno sfrattato, a un marocchino, a un povero di passaggio.
Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la vostra carriera diventa idolo della vostra vita, il sorpasso, il progetto dei vostri giorni, la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate.
Maria, che trova solo nello sterco degli animali la culla dove deporre con tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi occhi feriti a sospendere lo struggimento di tutte le nenie natalizie, finché la vostra coscienza ipocrita accetterà che il bidone della spazzatura, l’inceneritore di una clinica diventino tomba senza croce di una vita soppressa.
Giuseppe, che nell’affronto di mille porte chiuse è il simbolo di tutte le delusioni paterne, disturbi le sbornie dei vostri cenoni, rimproveri i tepori delle vostre tombolate, provochi corti circuiti allo spreco delle vostre luminarie, fino a quando non vi lascerete mettere in crisi dalla sofferenza di tanti genitori che versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, senza salute, senza lavoro. Gli angeli che annunciano la pace portino ancora guerra alla vostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che poco più lontano di una spanna, con l’aggravante del vostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfratta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la terra degli umili, si condannano popoli allo sterminio della fame.
I Poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’oscurità e la città dorme nell’indifferenza, vi facciano capire che, se anche voi volete vedere “una gran luce” dovete partire dagli ultimi.
Che le elemosine di chi gioca sulla pelle della gente sono tranquillanti inutili.
Che le pellicce comprate con le tredicesime di stipendi multipli fanno bella figura, ma non scaldano.
Che i ritardi dell’edilizia popolare sono atti di sacrilegio, se provocati da speculazioni corporative.

I pastori che vegliano nella notte, “facendo la guardia al gregge ”, e scrutano l’aurora, vi diano il senso della storia, l’ebbrezza delle attese, il gaudio dell’abbandono in Dio.
E vi ispirino il desiderio profondo di vivere poveri che è poi l’unico modo per morire ricchi.

Buon Natale! Sul nostro vecchio mondo che muore, nasca la speranza.


don Tonino Bello

giovedì 18 dicembre 2008

Non è più il tempo delle briosh


"...Gli uomini di potere democristiani sono passati dalla "fase delle lucciole" alla "fase della scomparsa delle lucciole" senza accorgersene."


Rileggevo giorni fa queste frasi tratte da un'articolo del Corriere della Sera del febbraio 1975, scritte da Pierpaolo Pasolini e mi venivano in mente dei parallelismi e delle ricontestualizzazioni dello stesso adattabili alla situazione politica che stiamo vivendo
oggi nel Bel Paese - possibile che dentro il PD nessuno si stia accorgendo che le lucciole stanno sparendo, e se si continua su questa strada il PD imploderà su se stesso?

Questo breve cappello per sottoporre alla vostra attenzione la lettura di un articolo, tratto dal quotidiano on-line Prima daNoi, che in maniera semplice e chiara fornisce (se per qualcuno ancora non lo fosse ) l'analisi lucida e allo stesso tempo penosa, della situazione politica della classe dirigente abruzzese.

Oramai non si tratta più di capire cosa sta accadendo, è fin troppo chiaro : lavoro, giustizia, equità, queste sono le priorità, non le briosch.

Oggi non è più il tempo delle chiacchiere é il tempo dell' agire, del tradurre la politica parlata in azione e concretezza .

In certe riunioni politiche piccole piccole, di bassa lena (non oso immagginare nei piani alti), ho sentito ancora molti cacicchi locali dire : "cosa ci guadagno, a me cosa ne viene in tasca"- e i problemi della gente? E i programmi elettorali? Dettagli, semplici dettagli.

Così cari amici del PD non andiamo da nessuna parte, se è vero che c'è bisogno di aria nuova c'è anche bisogno di uomini nuovi, non nella stretta accezione anagrafica ma nel modo di pensare e intedere la politica, ovvero come servizio per il prossimo e non come strumento per fare i propri porci comodi.

La "fase delle lucciole" è finita - qualcuno se ne è accorto? Spero.


Un amaro saluto

Belardo Viola



L'editoriale
Per fortuna ci ha pensato la gente a ricordarci che queste elezioni erano molto diverse da tutte le altre. Con un astensionismo record gli abruzzesi hanno mandato un segnale inequivocabile ai politicanti di ogni colore: basta ne abbiamo abbastanza.

Elezioni particolari, eccezionali: dovute ad un arresto e concluse con un arresto. In mezzo due inchieste tra le più dirompenti della regione… ma qui ogni inchiesta è più dirompente delle precedenti…
Così dopo il 14 luglio, giorno della liberazione della Regione dal presidente Del Turco, la politica tutta non ha impiegato molte settimane a riassestarsi e ritornare nei ranghi, con le logiche di sempre, per nulla impaurita da nuove e deflagranti inchieste.
Hanno pesato, e come, le comparsate, le battute, le interviste dell’ex presidente Del Turco da sempre al centro dell’attenzione anche quando era in isolamento.
Anche il giorno delle elezioni di cui lui è il principale responsabile. Ha sorriso agli obiettivi dei fotografi e lanciato messaggi ad effetto tanto per vedere cosa sarebbe successo.
Erano le 8 di domenica scorsa: Del Turco parlava e votava, gli abruzzesi ancora indecisi hanno deciso.
Da settembre poi è iniziata questa lunga estenuante campagna elettorale che doveva essere quella della svolta, dell’Abruzzo che volta pagina, che si lecca le ferite e che prova a rialzarsi davvero.
Nulla di tutto questo. La politica ha deliberatamente ignorato la portata dell’accaduto. Per convenienza, negligenza, impreparazione.
Le facce di sempre si sono accompagnate agli slogan di sempre, pieni di un vuoto spinto, senza ritegno, senza vergogna, senza il minimo tentennamento della coscienza.
Ed è stata una campagna elettorale uguale a tutte le altre con in più un arresto da inserire anche negli slogan elettorali. L’esempio lampante quello del vicario Enrico Paolini, vice di Del Turco fino al 14 luglio e poco dopo suo acerrimo nemico perché intenzionato a chiudere una legislatura in nome della trasparenza che ha continuato però ad avallare stabilizzazioni dubbie, di precari e portaborse, a sposare promozioni, la nuova pianta organica della regione, i concorsi lampo all’Arit e fornire rassicuranti promesse anche per le stabilizzazioni allo sportello Sprint. E sui suoi manifesti, il vice, lo ha ricordato a tutti: «l’onestà non si arresta».

Ma gli elettori non gli hanno dato fiducia e nel prossimo consiglio regionale lui non ci sarà.
Eppure qualcosa di molto dirompente è successo quel giorno di luglio, con implicazioni gigantesche che la classe politica non ha voluto vedere e continua a non voler vedere.
Per fortuna la gente ha capito e non vuole più farsi prendere in giro.
L’uomo della strada ha purtroppo una unica arma: non esercitare il proprio diritto di scelta.
Perché la democrazia è anche l’essenza del poter scegliere.
Il dato storico incontrovertibile è che gli abruzzesi ora sono stufi davvero e non tollerano più porcate di nessun genere, non tollerano più questa atmosfera asfittica dove i precari sono condannati a morte, le piccole aziende chiudono i battenti, i dipendenti vanno in cassa integrazione.
Ecco il prezzo che l’Abruzzo paga per la corruzione endemica e la mortificazione quotidiana delle leggi.
La gente ha detto basta alle mazzette, basta alle raccomandazioni, basta alle parentopoli che mortificano i più, basta alle corsie preferenziali.
L’astensionismo non sarebbe bastato a far riflettere i politicanti abruzzesi?
Così dopo il nuovo intervento della magistratura con l’arresto del più chiacchierato sindaco d’Abruzzo attendiamo la reazione delle buona politica, quella che è rimasta soffocata dai giochi di lobbies.
Il Pd ha peccato di superbia ed ha continuato a farlo senza un esame di coscienza ed ha continuato a compiere atti di dubbia legittimità fino al giorno prima delle elezioni.
Cos’altro deve accadere ancora in Abruzzo perché la gente si svegli, denunci, condanni, dia la spallata definitiva al marcio?
Chiodi che vince, d’altro canto, è l’avvento di una politica che ha davanti a sé un grande punto interrogativo. L’esigenza prima è il rinnovamento e questo può arrivare solo con il controllo diffuso dei cittadini che partecipano alla cosa pubblica.
Il controllo diffuso può essere concretizzato solo con la vera trasparenza.
Chiodi, il Pdl ed il centrodestra si sono dimostrati purtroppo insensibili a questa importante e vitale esigenza. Nessun esponente della coalizione (a parte il sindaco Antonio Tavani) ha firmato il manifesto di Pdn sulla trasparenza. Chiodi non ha speso nemmeno una parola nell’affaire della Asl di Pescara, una consulenza come tante (purtroppo) che ha però messo in luce l’essere refrattario alla chiarezza. Ecco perché l’Abruzzo non può tirare ancora un sospiro di sollievo.
Quello che si può sperare oggi è di non stare peggio di ieri.
E’ certo, invece, che non siamo sorpresi dalle ultime vicende giudiziarie.
Noi in tre anni abbiamo già raccontato tutto quello che sta emergendo in queste ore. Non so gli altri.

a.b.
Articolo tratto da : www.primadanoi.it
17/12/2008

mercoledì 17 dicembre 2008

Grazie



Il Partito Democratico di Capistrello ringrazia gli elettori che, con il loro voto, hanno espresso speranza e fiducia per la nostra presenza sul territorio, al punto da riconoscerci come primo soggetto politico locale.
La diffusa astensione, registrata nella regione dalla scarsa affluenza al voto, conferma ancora una volta la grave crisi di credibilità della politica, specie della vecchia e logora politica di quanti non hanno saputo interpretare la necessità di offrire alla comunità un servizio adeguato alle esigenze del presente e del futuro più immediato. I ben noti fatti di cronaca del ventennio appena trascorso lo testimoniano tristemente.
Fin d'ora, dunque, siamo tutti obbligati a riflettere per non cedere allo sconforto suscitato dalla malapolitica e, soprattutto, per modificare profondamente il rapporto tra politica e cittadini con l'obiettivo di fornire a tutti, con maggiore consapevolezza e realismo, un servizio efficace e di alto profilo a partire dai più deboli. Per questo sarà necessario scegliere proposte concrete, trasparenti e coerenti con le aspettative di una comunità, giustamente esigente, che merita maggiore considerazione, attenzione e rispetto.
Il Partito Democratico avverte tutta la responsabilità e la necessità di proporre al nostro paese una realistica via d’uscita alla crisi che, da troppo tempo, impedisce la crescita civile ed economica. Occorre un concentrato di capacità intellettuali e professionali, forze morali e credibilità personali per interpretare la domanda di cambiamento, espressa da molti, con un nuovo modo di fare politica che sia all'altezza della situazione. Questo è il nostro compito, insieme possiamo renderci utili a tutti!

Ancora grazie ai nostri elettori e auguri di Buon Natale a tutti.


Circolo Partito Democratico
Capistrello

sabato 6 dicembre 2008

Ritorno alla Thyssen tra i fantasmi della Linea 5


«Solo ora, alla fine della mia vita, quando ho fatto tutto quello che ritenevo giusto e attendo solo la morte, non ho più paura»
(Thomas Hobbes)

TORINO - Il buio è circondato da seicento metri di muro, e più nessuna insegna. Là sopra, sul tetto lungo e piatto stava scritto ThyssenKrupp Acciai Speciali: adesso niente, la fabbrica dei tedeschi non si chiama più. I girasoli attaccati al lampione in una specie di antico funerale sono secchi, e nel vento penzolano brandelli di scotch. Silenzio profondo. Poi, improvviso, il rombo dei camion. Qui tutto appare due volte morto: 6 dicembre 2007, il fuoco, un anno fa. E adesso, e domani. La grande magnolia col tronco annerito era un monumento ai caduti, proprio davanti all'ingresso della fabbrica color ruggine. Forse un altare, o un grido nel vuoto. Sulla corteccia è rimasto il cartellone con le sette fotografie, Antonio, Roberto, Angelo, Bruno, Rocco, Rosario, Giuseppe, poi un drappo rosso che il tempo ha scolorito. A terra, i resti di qualcosa che fu un fiore. Arriva una guardia. "Via, qui non si può stare". Ma come? Neanche per guardare un albero? "Non si può più, per favore, via". Pietro Russo è rimasto lì dentro fino a qualche giorno fa. Ex impiegato tecnico ora cassintegrato. E' stato tra gli ultimi ad abbandonare le navate alte dieci metri e lunghe trecento. Uno degli ultimi, anche, a poter raccontare cos'è oggi la "linea 5", quella dove l'aria prese fuoco ingoiando persone. "Ci sono i sigilli dei giudici tutto attorno ai macchinari, rimasti esattamente come quella sera - spiega - Hanno spento le luci, non si vede quasi niente. Lì dentro il sole non entrava mai. E intorno ci sono le fosse, ovviamente in sicurezza, gli enormi buchi delle macchine smontate e portate a Terni, nell'altro stabilimento Thyssen". Bisogna immaginare un interminabile corridoio, racconta Pietro, con una specie di vagone accanto: il forno. Rossi i pavimenti e i piloni, gialli i tubi e le ringhiere. Nero tutto il resto. Il buio è un calamaio, un pozzo sfregiato dall'inferno più o meno a metà strada, 150 metri oltre l'inizio dei sigilli rossi e bianchi. Manca poco all'una di notte. Il nastro d'acciaio scorre, sbanda, scintilla, olio e carta innescano la bomba, scoppia un flessibile pieno d'olio, l'onda è una bocca rossa che divora ogni vita. "Si vedono ancora le strisce di olio bruciato, uscito dalla macchina e subito incendiatosi". Gli acidi, i gas, l'elettricità. L'apocalisse. Dopo un anno, è come guardare dentro il motore di un'immensa auto carbonizzata: tubi, manicotti, cilindri, bulloni, dischi, tutto però cristallizzato da una specie di morte nera. Per salvarsi, ed era impossibile, si sarebbero dovuti attraversare almeno quindici metri compatti di fiamme. Il fumo ha disegnato per sempre i contorni della strage, anche se i padroni avrebbero voluto portare via tutto, smontare e rimontare altrove, rimuovere, dimenticare. Lo ha impedito l'inchiesta. "Ma io ricordo che il mattino dopo il disastro, i tedeschi volevano ripartire con la produzione" dice Giorgio Airaudo, segretario della Fiom torinese. "Non fu facile impedirlo". Cosa resta dopo un anno? "La ferita della domanda: si poteva evitare? Io dico di sì. La sconfitta sindacale, perché la fabbrica adesso è chiusa. E la conferma della generale svalutazione del lavoro operaio, se le merci diventano più importanti delle persone". Qualche pallido neon illumina le palazzine degli impiegati, in un lucore da camera mortuaria. Invece la fabbrica è totalmente buia. Nell'immensa navata - nell'area delle vecchie Ferriere lavoravano 13 mila persone negli anni Ottanta, e adesso zero - si aprono gli abissi della dismissione. Le squadre delle aziende che montarono gli impianti, come la tedesca Demag, sono venute a smontare, pezzo per pezzo, il corpo di una fabbrica e la storia di migliaia di persone, sette delle quali uccise. Prima del rogo avevano già portato via la linea B/A e il laminatoio Sendzimir 54; dopo tre mesi di stop, a marzo si è tornati a svitare, tagliare, togliere. Via un secondo laminatoio più grande, il Sendzimir 62, e un terzo più piccolo, lo Skinpass 62. A seguire, due linee di taglio. "Adesso si sta dismettendo la linea 4" spiega Pietro Russo. La maledetta linea 5 resta lì, circondata dal nastro bianco e rosso: a gennaio inizierà il processo in Corte d'Assise. "La cosa strana è che non c'è puzza di bruciato, e neanche odore di ferro. Ma neppure prima si sentiva, o forse eravamo talmente abituati da non sentirlo più". La massa impressionante è il rotolo d'acciaio da settemila chili, il termine tecnico è aspo, un enorme cerchio grigio ancora pieno di macchie d'olio bruciato. "Nella linea 5 lo si rendeva sottile, adatto alla fabbricazione di oggetti di qualità: posate, pentole, vassoi, ma anche la lamina delle lavatrici, oppure tubi". Qui ha preso forma l'esatto contenuto della parola inferno, eppure la voce di Pietro conserva l'orgoglio del lavoro fatto bene, una specie di bizzarra felicità. "Perché lo voglio dire: qui, fino al 2006 abbiamo lavorato tanto, in condizioni di sicurezza. Poi l'azienda decise di chiudere, e allora smise di occuparsi anche delle cose minime però essenziali, non solo la salute dei lavoratori, persino la carta igienica nei bagni". Il silenzio è innaturale per chi conserva nelle orecchie e nella pancia il boato di una produzione che non si fermava mai, sette giorni su sette, ventiquattro ore al giorno. Nella palazzina degli uffici si aggirano come zombi una decina di impiegati: cinque "si collegheranno" alla pensione, altri cinque faranno compagnia ai 28 operai "da ricollocare", attualmente a Camerana per un corso d'aggiornamento. Completano l'elenco due disabili e due distacchi: uno è Antonio Boccuzzi, il superstite della linea 5 diventato deputato. La cassa integrazione scadrà il 3 marzo 2010. Chi alla Fiom si è battuto più di tutti per il loro posto è il sindacalista Fabio Carletti. Adesso il lavoro è quasi finito, e può scuotere per bene la testa. "Il mio cruccio è avere perso. Ma, di più, avere conosciuto un padrone che non ha nessuna considerazione degli altri. Uno che dice con brutalità anche sincera che il lavoratore è suo, lo paga e dunque ne fa quello che vuole". Invece Giorgio Airaudo prende a schiaffi l'aria, mentre quasi parla con le mani: "Quando il lavoratore è debole, anche il sindacato lo è. Forse è venuto il momento di chiedersi cos'è, oggi, la classe operaia". A Torino, 170 mila metalmeccanici. Il dieci per cento del totale nazionale. Invisibili. "Io provo tanta rabbia. Poteva non avvenire, doveva non avvenire". Il mostruoso vagone della linea 5 è il più lontano dall'ingresso su corso Regina Margherita: sta quasi addossato all'ex Ilva, altra acciaieria fantasma. Poi, i centoventi metri del capannone - in larghezza - e la strada che separa la fabbrica dagli uffici con lo spogliatoio, al piano di sopra, e sotto la mensa. Dentro, i passi rimbombano come in una cattedrale sconsacrata. Ma sono gli ultimi rumori. Qualche mese ancora e il silenzio sarà assoluto, magari non servirà neppure la guardia che adesso si è seduta nella sua macchina bianca e verde, con le insegne cubitali di una polizia privata, e aspetta che il ficcanaso metta in moto e sparisca. Perché questo è il turpe desiderio, questa l'insana speranza: cancellare ogni cosa, far scappare gli ultimi residui di memoria. Renderli come il fiocco nero, segno di lutto che qualche mano pietosa legò al mancorrente e dopo un anno giace a terra, stinto, insieme ai petali secchi, al cellophane di una remota era preistorica. È diventato pallido anche l'inchiostro delle scritte. Una, bianca sui mattoni della palazzina, dice "Mase vive". E magari un po' è vero, finché anche solo un essere umano ti vuole bene se pure non ci sei più, però Mase - cioè Giuseppe Demasi, 26 anni, la settima e ultima vittima dopo quattro interventi chirurgici, una tracheotomia e tre rimozioni di cute in vana attesa della pelle nuova - sta nello stesso angolo di cimitero degli altri, non tutti, cinque, dove una striscia azzurra tracciata dal Comune indica la strada, aiutando a trovare i ragazzi morti nel fuoco della fabbrica. Anche così si prova a non dimenticare. L'altra scritta in realtà sono due, spruzzate dodici mesi fa da una bomboletta contro il cemento del muretto esterno, dove si appoggia la ringhiera verde. "Di lavoro si muore, sciopero selvaggio" con tre punti esclamativi. E più a destra, continuando: "Operai bloccate tutto!" e il simbolo dell'anarchia. Remotissimo, quest'ultimo slancio a battaglia ormai conclusa, perduta. Invece la quarta scritta è un tabellone pubblicitario, messo proprio dove comincia la fabbrica e dove finisce la città. Dice: "Christmas Village, vola in un magico Natale". Appesi a un secondo lampione, due mazzetti di rose rosse hanno resistito alle stagioni, all'estate torrida e a questo freddo cattivo: i fiori stanno imbozzolati dentro il cellophane, con molti giri di nastro adesivo per isolare e difendere. Viene quasi da immaginare il gesto d'amore feroce, certamente di mano di donna, che pose quei fiori. Proteggerò tutto di te. Il traffico della tangenziale sposta l'aria con schiaffi decisi. Ogni tanto la sbarra del parcheggio si solleva e libera un'auto che pare guidata da nessuno: chi è rimasto non è meno spettro di chi è andato. Dalla montagna in fondo al corso, nitida e netta come una cartolina o forse un sogno, scende aria gelata. Il cielo ha lo stesso colore dell'acciaio che si srotolava da gomitoli alti come una casa, finché lo maneggiavano gli operai della Thyssen. Ma stasera sembra un coperchio posato sul mondo.

La Repubblica(5 dicembre 2008)

giovedì 4 dicembre 2008

Voglio condividere con tutti voi una breve ma significativa intervista a Gustavo Zagrebelsky uscita qualche giorno fa intorno alla questione morale nella politica, un'analisi quella di Zagrebelsky che sposo a pieno senza se e senza ma.

Augusto Bisegna



Intervista a Zagrebelsky: «Corruzione a sinistra, cacicchi scatenati»

di M.Antonietta Calabrò – Il Corriere della Sera 3/12/08

«Questa è qualcosa di più di un’intervista, è uno sfogo».
A parlare così è Gustavo Zagrebelsky, uno dei più importanti costituzionalisti italiani, ex presidente della Corte Costituzionale, opinionista influente, capofila della scuola piemontese cui hanno fatto riferimento personaggi come Giancarlo Caselli e Luciano violante, e un’intera generazione di magistrati “democratici”.


Fumo negli occhi per il centrodestra che lo ha sempre temuto come il padre nobile di Mani Pulite e, negli anni, come la punta di diamante giuridica contro le cosiddette leggi ad personam e i provvedimenti sulla giustizia dei governi Berlusconi succedutisi dal 1994.
Ebbene, con il suo consueto rigore more geometrico Zagrebelsky prende oggi pubblicamente atto che un’enorme «questione morale sta corrodendo il centrosinistra». E quello che Gerhard Ritter aveva definito «il volto demoniaco del potere» ormai è diventata l’altra faccia della politica del Partito democratico. Secondo l’analisi di Zagrebelsky il Pd «a livello centrale è debolissimo e quindi a livello locale i cacicchi si sono scatenati». Dalla Campania all’Abruzzo, da Firenze a Genova.

Oggi la questione morale si è spostata a sinistra?
«Sì. Per un motivo antropologico e per uno politico».

Prima l’antropologia…
«È una questione di antropologia, ma pur sempre antropologia politica. Le leggi della politica sono ineluttabili. La politica corrompe. Ha un effetto progressivamente corrosivo, permea il tessuto connettivo e stabilisce delle relazioni basate sul potere. Nel caso meno peggiore si tratta di relazioni non trasparenti, di dipendenze, di clientele. Siamo un popolo di clienti delle persone che contano. Nel peggiore dei casi, invece, si tratta di vere e proprie relazioni criminali e di malavita».

Anche nel Pd?
«Sì. Nella sinistra, il neonato Pd è la causa della questione morale che constatiamo. Per due motivi».

Il primo?
«Il mancato ricambio generazionale che era la speranza e la scommessa dei democratici. Non che a sinistra ci siano necessariamente gli uomini migliori, ma si poteva sperare in un rinnovamento che avrebbe invertito l’inesorabile avanzata degli effetti della legge sulla corruzione».

Il secondo?
«La debolezza del partito, dell’organizzazione del partito, la mancanza di comuni linee di condotta…»

Rina Gagliardi su «Liberazione» ieri sottolineava che l’esplosione della questione morale comporta il rischio di implosione per il Pd. Manca il centralismo democratico?
«Certamente non bisogna invocare il centralismo democratico che era anch’esso una degenerazione, ma al centro del Pd oggi come oggi non c’è nulla e così a livello locale i cacicchi si sono scatenati».

Anche D’Alema aveva definito questa tipologia di politici locali il «partito dei cacicchi». Lei quando parla di caciccato pensa alla Campania del presidente Antonio Bassolino?
«Non conosco direttamente le varie situazioni: certo è che se ne sentono dire di tutti i colori».

Proprio ieri il capo dello Stato, parlando a Napoli, ha fatto un forte appello all’autocritica delle forze politiche in particolare del Mezzogiorno. Condivide le parole di Napolitano?
«Completamente. Anche perché si stanno avvicinando le elezioni amministrative e quello che si vede e si sente ha effetti devastanti sulla tenuta democratica del Paese».

Ci spieghi…
«La gente si sente strumentalizzata, usata per giochi di potere. C’è un drammatico bisogno di ricambio degli amministratori. Molti cittadini hanno veramente creduto nella possibilità di un cambiamento con il governo della sinistra. E invece, le ferree regole descritte da Ritter ne Il volto demoniaco del potere hanno avuto il sopravvento e si è instaurato il caciccato».

E nel centrodestra ci sono i cacicchi?
«Il centrodestra ha un leader, Berlusconi, che ha dimostrato di avere le capacità e le possibilità, anche materiali, di tenere insieme i suoi. Noi constatiamo che a destra il sistema di potere funziona meglio e quindi è meno visibile. Non che questo sia un vantaggio, ma gli effetti degenerativi non sono sotto gli occhi di tutti in maniera così eclatante»