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mercoledì 1 aprile 2009

Settimo non rubare Un libro di Paolo Prodi va al cuore della crisi che investe la società europea

«Non rubare». Enunciare ad alta voce il settimocomandamento ne fa emergere la natura particolare rispetto agli altri. Nell’evocazione, infatti, si avverte la sensazione che, a differenza del divieto di adulterio o di atti impuri, questa solenne proibizione non solo continui ad avere un’importanza centrale all’interno della nostra, pur drasticamente aggiornata, morale privata; ma rivesta ancora oggi una cruciale valenza pubblica e civile.
Ed è proprio sulla doppia risonanza del settimo comandamento, sul suo essere a cavallo tra pubblico e privato – e insieme tra dottrina sociale cristiana, democrazia e capitalismo – che Paolo Prodi, professore emerito dell’università di Bologna, ha costruito un intenso volume, edito dal Mulino: Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente (pp. 396, euro 29).

L’animus furandi
Come mai il monito a non rubare abbia svolto un ruolo centrale nella storia europea si capisce analizzando lo spostamento che il significato di questo reato ha subito nel corso dei secoli: si è passati da un concetto di furto statico, basato sulla tradizione biblica e sulla legge naturale, come appropriazione di una “cosa” altrui e violazione del principio fondamentale della giustizia; ad un concetto più ampio e dinamico, in cui esso si configura come «violazione fraudolenta delle concrete regole della comunità umana nel possesso e nell’uso dei beni di questa terra».
Ecco allora che “divieto” diventa il punto in comune tra due mondi autonomi: quello della politica e quello del mercato.
La sua infrazione lede insieme sia la ricerca del profitto intesa come ricerca della ricchezza di una comunità, sia il perseguimento del bene comune. In breve, distrugge il bene/benessere collettivo.

Né liberismo né statalismo
Ragionare sul furto consente di aprire una riflessione di ampio respiro sul rapporto tra mercato e politica. «Simul stabunt aut simul cadent»: capitalismo e democrazia vanno insieme, e l’uno non può vivere senza l’altro. Il rapporto tra politica e mercato è «un fertile dualismo», che è insieme una tensione continua, una vera «rivoluzione permanente». Quando, storicamente, questo legame si è risolto in una perversa simbiosi – come nel colonialismo o nei totalitarismi – i risultati sono stati tragici.
Come drammatici sono gli esiti dell’attuale «mutazione antropologica della società e del suo rapporto con le merci», che ha condotto ad un’egemonia del potere economico sul politico, che potrebbe dar luogo a nuovi rovesci e pericolose fusioni.
Oggi non solo si moltiplicano politici imprenditori e imprenditori politici, ma soprattutto si assiste «ad un ampliamento di una fascia grigia tra pubblico e privato», fatta di «false privatizzazioni, nuovi monopoli, società con capitale pubblico, nella quale si offende quotidianamente il mercato ». In questo panorama, la crisi del rapporto dell’impresa con il contesto sociale in cui opera, l’aumento delle rendite rispetto ai redditi da lavoro, la sperequazione nelle retribuzioni hanno reso ancora più fragili i valori tradizionali della proprietà.
Uscire da questa crisi è possibile attraverso la ricerca di una nuova «separazione tra potere sacro, politico ed economico, nella dialettica tra interesse privato e bene pubblico». Un nuovo dualismo che potrebbe trovare il suo principio di ordine in un antenato affascinante: quella lex mercatoria nata per rivendicare, di fronte alle corti e allo stato-Leviatano, la presenza di norme a protezione delle antiche tradizioni mercantili.
Una sorta di «repubblica internazionale del denaro», ma di segno inverso a quella della finanza globalizzata, basata su bene comune e fiducia, dotata di una sua ideologia e una sua etica che, prendendo il posto dell’universalismo cristiano, ne mantenga la dottrina sociale imperniata sul settimo comandamento.

Una lex mercatoria globale?
Su questa proposta, secondo l’autore, potrebbe nascere anche un rinnovato ruolo pubblico della Chiesa, che, dopo un lungo e positivo processo che l’ha vista aprirsi al mondo economico, accettando la ricchezza pur solo in funzione dello sviluppo della società, ha finito per ripiegarsi, con il Concilio di Trento, nel buio dei “fori” interiori.
Un «gelido silenzio sui temi economici e sulle ingiustizie sociali», a favore di quelli della vita, che altro non è, ieri come oggi, se non il segnale di una perdita di influenza pubblica. Influenza che la Chiesa potrebbe riconquistare, proprio rilanciando la sua dottrina sociale.
Difficile valutare se questo universalismo etico-economico potrebbe avere successo in società plurali e frammentate come quelle attuali. Di certo, un esempio già c’è, visto che, fin dal giorno del suo insediamento, il neopresidente Obama non ha esitato a riutilizzare un nuovo e suggestivo lessico morale in relazione all’economia, di cui anche il nostro paese avrebbe un disperato bisogno. E non è un caso, allora, che lo stesso Obama abbia imposto la restituzione di ciò che era stato acquisito in maniera illegittima: ricorda infatti Prodi che nessuna assoluzione del reato di furto era in passato possibile senza ridare indietro il maltolto, pena un danno permanente alla comunità.
Cosa avverrebbe oggi se qualcuno in Italia parlasse di “avidità” dei manager pubblici e privati? O imponesse il risarcimento immediato dei consumatori truffati da crack finanziari e truffe? Le nostre carceri sono piene di poveri condannati per furto semplice, quando la stessa Chiesa ricordava di attenuare le pene per gli indigenti.
Mentre chi ha violato, e continua a violare, le regole del mercato, resta impunito.

Elisabetta Ambrosi
tratto da : Euorpaquotidiano 26.03.09

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